Già era accaduto nella piccola comunità caraibica di Grenada, dove circa due anni fa un giudice aveva condannato gli insulti su Facebook, approvando un progetto di legge che definiva reato denigrare qualcuno sul famoso portale statunitense oppure sul “collega” Twitter. La legge ammetteva infatti, in caso di commenti considerati offensivi sul proprio conto, il ricorso alla polizia, la quale aveva il compito di stabilire la reale natura offensiva degli stessi. La colpevolezza veniva punita con multe fino a $37,000, oppure con 3 anni di carcere.
Oggi, a non troppa distanza di tempo, la stessa sorte sembra toccare ai cittadini del Bel Paese, dove a quanto pare la Cassazione ha dovuto pronunciarsi in merito alla stessa questione, a causa di un processo avviato da una coppia di coniugi presso il Giudice di Pace di riferimento, ma che ha finito poi col mettere in discussione la competenza dell’organo. Il giudizio, trasmesso in un secondo tempo al Tribunale (in possesso persino della facoltà, in caso di diffamazione aggravata, di prescrivere la reclusione da 6 mesi a 3 anni), ha infatti – dopo varie vicissitudini tra cui la rimessione degli atti alla sede originale – infine richiesto l’intervento della Suprema Corte.
Nello specifico, la parte lesa, la moglie, aveva denunciato le offese del consorte, esternate a chiare lettere sul noto social network, e quindi visibili da chiunque.
L’organo al vertice della giustizia avrebbe riconosciuto la gravità di comportamento di chi si esprime in modo oltraggioso nei confronti di altri pubblicamente, stabilendo che “la diffamazione su Facebook deve essere considerata aggravata dal mezzo della pubblicità e pertanto la pena da applicare può essere il carcere“.